3/2/2007 (8:41) – NÉ COL PAPA NÉ CON LUTERO
È una delle scarsissime testimonianze dell’epoca che ci descrivono il rogo di Giordano Bruno. Il filosofo venne arso vivo in piazza Campo de’ Fiori il 17 febbraio dell’anno santo 1600. A Roma è Papa dal 1592 – e lo sarà fino al 1605 – Clemente VIII, il fiorentino Aldobrandini, un pontefice che unisce a una rigorosa pietà controriformistica, testimoniata anche dall’intensa attività repressiva, un senso della misura politica che lo ha appena spinto, nel 1598, a riconoscere come re di Francia Enrico IV di Borbone, e con lui, sia pur con non poche difficoltà, l’editto di Nantes, cioè l’editto di tolleranza del calvinismo in Francia. L’anno giubilare 1600 rappresenta l’apice del successo del suo pontificato, e la Roma in cui arde il rogo di Bruno è una città fastosa in cui si erge nuova la cupola michelangiolesca di San Pietro, una città affollata all’inverosimile di pellegrini, i «romei», che visitano le sue chiese per lucrare indulgenze. Il perdono concesso durante gli anni giubilari, naturalmente, non aveva conseguenze sull’amministrazione quotidiana della giustizia.Le esecuzioni capitali, tanto di criminali comuni quanto di eretici, continuavano a svolgersi anche durante il giubileo. Quello della Roma giubilare era un teatro dove tra le processioni e le cerimonie religiose i roghi e gli atti repressivi della Chiesa della Controriforma non rappresentavano una nota discorde.
A Roma le esecuzioni capitali sono un evento normale, abituale se non proprio quotidiano, un evento a cui la gente si reca come a uno spettacolo. In questo, l’Urbe non si differenzia in nulla dal resto delle società d’ancien régime.
Qui, fin dalla metà del Cinquecento, gli eretici condannati dovevano sottoporsi all’autodafé, il famoso atto di fede, cioè una pubblica abiura. I condannati dovevano presentarsi in pubblico, rivestiti di un abito penitenziale, detto «abitello», e recitare una formula di abiura. Solo dopo l’abiura formale dei loro errori avrebbero ascoltato la condanna emanata dal tribunale. Non tutti coloro che erano condannati per eresia venivano condannati a morte (nei periodi di più dura repressione la percentuale arrivò fino al 20%). Quelli che lo erano – eretici impenitenti o relapsi (cioè ricaduti nell’errore) anche se pentiti, o anche altri casi considerati particolarmente gravi – venivano rilasciati, cioè consegnati al braccio secolare perché si occupasse dell’esecuzione. In teoria, infatti, la Chiesa non poteva spargere sangue; di qui l’ipocrita formula adoperata nel caso del rilascio al braccio secolare, che fu usata anche nel caso di Bruno: «come ti rilasciamo alla Corte di voi monsignor Governatore di Roma qui presente, per punirti delle debite pene, pregandolo però efficacemente che voglia mitigare il rigore delle leggi circa la pena della tua persona, che sia senza pericolo di morte o mutilatione di membro»…
Ma chi era Giordano Bruno? Era indubitabilmente un filosofo di fama europea, ben consapevole del valore eversivo del suo pensiero. Ma allora: come mai nel 1592 pose fine al suo peregrinare in terra europea fermandosi a Venezia, e consegnandosi di fatto nelle mani dell’Inquisizione? Secondo alcuni studiosi – Corsano ma anche Garin e Luigi Firpo, il dottissimo editore dei testi processuali di Bruno – tra i progetti di Bruno era anche un progetto politico religioso volto a instaurare in Europa una pace religiosa fondata sulla riduzione dell’Europa a una sola religione. Ma quale doveva essere quella religione?
Per Bruno, che allora aveva trovato rifugio nella Germania protestante, questa religione non poteva essere il protestantesimo. Se mai per un momento egli davvero pensò ad attuare i suoi progetti politici sotto l’ombrello riformato, troppe erano le ragioni filosofiche e teologiche della sua ostilità di fondo ai luterani e ai calvinisti, in primo luogo la dottrina della giustificazione per fede, come risulta dalle testimonianze degli atti processuali oltre che dai suoi scritti, in particolare dallo Spaccio della bestia trionfante. Dunque, non poteva essere che sotto l’ombrello del cattolicesimo, un cattolicesimo che poco però aveva a che fare con quello esistente: un cattolicesimo riformato, in un’ottica politica legata non allo scontro confessionale ma alla pacificazione politica, come nell’ideologia della «terza via» nel conflitto tra protestanti e cattolici.
Bruno pensava che il contesto generale fosse favorevole per tornare e tentare di prendere a Roma un ruolo politico di primo piano, fors’anche di consigliere del Papa. Era stato, però, preceduto – in questa che potremmo chiamare illusione in un papato illuminato e riformatore – da Francesco Pucci, personaggio per molti versi a lui simile, intriso della stessa utopia pacificatrice e fiducioso nella protezione di Clemente VIII. Già calvinista e poi sociniano e poi di nuovo ritornato al cattolicesimo ma sempre in odore di eresia, Pucci tornò a Roma nel 1594, fu rinchiuso nelle carceri dell’Inquisizione (vi conobbe Campanella ma non Bruno) e fu decapitato e poi bruciato nel 1597.
Come è a tutti noto, Bruno non ebbe sorte migliore. Nel settembre 1599 il tribunale gli chiese una ritrattazione ampia e esauriente delle sue posizioni. Se avesse abiurato, avrebbe avuto salva la vita (dal momento che non aveva avuto condanne precedenti, non era relapso) e avrebbe potuto probabilmente finire la sua vita in qualche convento, e forse anche riprendere a scrivere. Se avesse rifiutato l’abiura, sarebbe divenuto un eretico impenitente, e quindi passibile di essere rilasciato al braccio secolare (la formula eufemistica dalla Chiesa usata per la condanna a morte, che doveva essere eseguita dalle autorità secolari). L’abiura era quanto il tribunale voleva ottenere, la vittoria della verità sull’errore, della fede sull’eresia. Senza abiura, il tribunale era sconfitto.
Ma Giordano Bruno, dopo alcune esitazioni, rifiutò l’abiura e la mattina del 17 febbraio, un giovedì, salì sul patibolo di Campo de’ Fiori.